SULLE BUONE MANIERE
Spesso, negli anni, ho riflettuto sul significato delle buone maniere, alla ricerca di una spiegazione che potesse mettere insieme aspetti diversi e, spesso, divergenti. Mi capitava di pensare che, al di là di quelle pochissime relazioni intime in cui è possibile andare oltre il comportamento manifesto, nella maggior parte dei casi doveva essere il comportamento stesso a fornire un orientamento sul substrato affettivo-emotivo dell'altro e a fungere da ponte di accesso al suo mondo interno. È chiaro che per buone maniere non intendo il rispetto pedissequo delle norme del galateo, che sembrano peraltro coerenti con un profilo di inautenticità, spersonalizzazione, finzionalità e formalismo, quanto piuttosto una modalità di entrare realmente in relazione con l'altro, tanto da farlo sentire accolto, accettato, non giudicato e riconosciuto. Le buone maniere possono declinarsi in un insieme di qualità, come la gentilezza, il calore, la generosità, l'autenticità, la disponibilità affettiva, l'ascolto, che rispecchiano, in chi le esercita, lo spessore del suo mondo interno e consentono, in chi le riceve, di sperimentare piacere relazionale, agio emotivo e slancio vitale. A sostegno di ciò, mi viene in aiuto questo meraviglioso passo di Nina Coltart, tratto da Pensare l'impensabile e altre esplorazioni psicoanalitiche: "Le maniere non sono la mera questione di ricordarsi di dire per piacere e grazie, non sono i residui fossili di un po' di lubrificanti sociali imparati all'asilo, non sono una sottile e superficiale patina di falsità. Sono la vera sostanza di come siamo nel nostro essere-nel-mondo".
Dipinto: C. Monet, Ninfee (1916)